“A causa del fatto che è difficile vedere sé stessi in maniera oggettiva, ognuno di noi deve contare sugli input ricevuti dagli altri e sull’intero corpo delle evidenze” - Ray Dalio. A voler essere minimalisti fino al midollo questa citazione sarebbe sufficiente a spiegare, concretamente, tutto quello che ci sarebbe da dire sull’argomento: la necessità di costruire relazioni significative risiede proprio nella nostra necessità di specchiarci negli altri per ottenere indizi su come siamo fatti e, eventualmente, comprenderci in modo migliore. Ma facciamo per un momento un passo indietro.
Il primo teorema di Gödel afferma la non completezza sintattica di un sistema coerente e assiomatizzabile dell’aritmetica. Per utilizzare le parole di Jim Al-Khalili: “Il teorema di Gödel limita […] la capacità di un sistema logico di dimostrare tutte le proprie proposizioni…” Tuttavia questa è solo metà della storia, infatti Al-Khalili continua: “…non pone [però, ndr] limiti sull’abilità di un sistema logico di provare proposizioni generate da un altro sistema logico.”
Con uno sforzo immaginativo si potrebbe ipotizzare di “estendere” il significato formale del teorema di Gödel alla auto-conoscenza, all’esplorazione dei propri limiti, bias e credenze. Allora, suonerebbe più o meno così: “la capacità di una persona (sistema logico) di dimostrare tutte le proprie credenze su sé stesso (proposizioni) è limitata; non è limitata tuttavia l'abilità di una persona (sistema logico) di provare le credenze generate da un'altra persona (altro sistema logico)". Ergo, per capire veramente sé stessi, poter progredire e per poter arrivare sempre più vicino alla propria verità (probabilmente mai raggiungibile), abbiamo bisogno di altri sistemi logici, ovverosia di altre persone, abbiamo bisogno di network e di metterci in relazione ad altri nella maniera più compassionevole, profonda e mindful possibile; abbiamo, insomma, bisogno di interazioni sociali significative. In fondo, come disse Aristotele, “L’uomo è, per sua natura, un animale sociale.” Ma cosa si intende per “relazione sociale significativa”?
In brevissimo una relazione sociale può dirsi significativa quando aggiunge qualcosa ai due (o più) contraenti che prendono parte alla relazione, la qual cosa è possibile se e solo se: entrambi (nota: consideriamo qui il caso di relazioni a due ma tutto è perfettamente estendibile anche a casi di gruppi più ampi) gli individui investono attivamente risorse nella costruzione del rapporto, nell’aggiungere valore; il tutto è maggiore della somma delle parti (cosa che deriva, automaticamente, dal primo punto), ed entrambi, seppur potenzialmente in momenti diversi della relazione, traggono qualcosa di importante per la propria auto-conoscenza, la propria crescita e per la propria auto-realizzazione. Messa in questi termini una relazione significativa nutre per certo i tre livelli più alti della piramide di Maslow: amore/appartenenza, stima e aut-realizzazione.
La società e la cultura dominante associano generalmente all’idea di “relazione significativa” una relazione duratura, addirittura che si estende per una vita intera (si pensi all’idea di “migliore amico” o di “anima gemella”). Benché questo tipo di amicizie possa sicuramente essere di valore, la mia argomentazione è che non siano solamente queste le relazioni significative e che sia necessaria una combinazione di più tipi di relazione per essere completi da questo punto di vista. Relazioni brevi, il processo di instaurazione di nuove conoscenze e rapporti “occasionali” vanno proprio nella direzione di conoscersi in maniera più profonda. Le altre persone sono per noi degli specchi, ma sono degli specchi particolari. Diversamente dallo specchiarsi su uno specchio convenzionale dove l’immagine riflessa è sostanzialmente uguale al cambiare dello specchio, riflettersi nelle altre persone è come specchiarsi su una superficie liquida: i moti, superficiali e profondi, del volume liquido restituiscono un’immagine sempre diversa. Più volte riusciamo a specchiarci più acquisiremo conoscenza di noi stessi. Come dice Mick Odelli: "Certe cose veramente personali vanno raccontate solamente agli sconosciuti."
Il rischio delle relazioni di lunghissimo termine, almeno che non siano estremamente virtuose (cosa davvero difficile da raggiungere), è che costituiscano una sorta di echo chamber in cui diventa difficile uscire dai ruoli che si sono venuti a strutturare ed essere quindi completamente aperti e completamente sinceri l’uno con l’altro. Per questo è bene completarle con rapporti inizialmente più superficiali. Un nuovo rapporto può avere due possibilità di sviluppo: la prima in cui il rapporto rimane superficiale, la seconda in cui cominciare a svilupparsi ed evolvere in qualcosa di più profondo e/o duraturo. Nel primo caso si è preso quello che si poteva prendere e dato quello che si poteva dare, non sono necessari rimpianti: il proprio mental account deve essere quello di conoscersi e dare il massimo di sé stessi in questo processo. Nel secondo caso si entra in un periodo inflazionario di conoscenza reciproca che è il periodo in cui si trae la maggior parte del vantaggio quando si parla di auto-consapevolezza.
In The Six Forces That Fuel Friendship Julie Beck su The Atlantic elenca le sei forze che permettono di creare un’amicizia. Alcune di queste sono valide sia per costruzione di amicizie di lungo termine sia per rapporti più brevi. Per i nostri scopi organizzeremo queste sei forzi in due categorie: la prima relativa allo stato mentale e all’account mentale su cui basare il processo conoscitivo e la costruzione di un rapporto, che definiremo quindi “stato mentale” e la seconda invece sulle azioni pratiche da intraprendere per la costruzioni di quelle amicizie che si immagina di voler coltivare e far durare a lungo che definiremo quindi “azioni pratiche”. Nella categoria stati mentali rientrano: attenzione, intenzione e l’eleganza. Nella seconda categoria invece ricadono: accumulazione, rituali e immaginazione.
Partiamo velocemente dalla seconda categoria, le azioni pratiche da intraprendere per costruire un rapporto: l’accumulazione indica il fatto che per costruire qualcosa è indispensabile accumulare un certo qual tempo insieme; i rituali sono fondamentali perché consentono di abbattere le barriere derivanti dall’organizzarsi per vedersi e facilitano, di conseguenza, la possibilità di accumulare del tempo insieme a “costo” percepito quasi nullo (e.g. ci si vede tutti i venerdì per aperitivo dopo lavoro al fine di condividere le nostre settimane); l’immaginazione ha invece a che fare con il proiettare verso l’esterno quello che secondo noi quella particolare relazione dovrebbe essere, è un atto comune in cui tutti i partecipanti si impegnano nel co-design del rapporto che stanno costruendo.
Sono, però, gli stati mentali ad essere veramente interessanti in questo caso perché costituiscono un modo di incarnare dei principi fondamentali non solo per le relazioni ma in generale per essere sempre presenti a sé stessi e poter vivere quindi in vita piena.
Il primo di questi stati mentale è l’attenzione e semplicemente risponde alla domanda: “stai facendo qualsiasi cosa tu stia facendo in modo pieno e concentrato? stai dedicando completamente te stesso alla cosa che stai facendo?” L’attenzione è un meccanismo neuro-cognitivo selettivo che non solo permette la focalizzazione su un determinato qualcosa ma, e forse soprattutto, permette di scegliere quali siano le cose da escludere dal campo attentivo. Tutto quello a cui possiamo potenzialmente porre attenzione costituisce il nostro campo attentivo e tutto ciò in esso contenuto compete per accaparrarsi un pezzo della nostra limitata capacità cognitiva; tale campo è costituito da pensieri interni, emozioni, sensazioni fisiche e stimoli esterni. L’idea che questi elementi competano per le risorse attentive è ovviamente una metafora, non esiste alcune attività da parte “loro” in tal senso, avviene tutto internamente e siamo noi attori protagonisti in questa lotta. Decidere cosa può occupare le nostre limitate risorse attentive è una decisione, un qualcosa su cui abbiamo la piena influenza… se solo abbiamo la volontà di farlo e spendere fatica. Si può facilmente argomentare che qualsiasi cosa di significativo si possa raggiungere nella propria vita richieda la nostra più totale attenzione e che quest’ultima sia, quindi, un proxy per realizzarsi ed essere felici.
Il secondo degli stati mentali fondamentali è l’intenzione. L’intenzione e l’attenzione vanno a braccetto e la combinazione delle due diventa un’arma potentissima nel dedicarsi a qualcosa. In questo caso si parla di relazioni significative, ma come ormai dovrebbe risultare chiaro il leit motiv di questo scritto è quello di estendere tali stati mentali a principi per la conduzione di una vita piena. L’intenzionalità è lo sforzo di direzionare la nostra volontà esecutiva nei confronti di un qualcosa di specifico, richiede quindi di prendere una decisione. Intenzione e decisione vanno a braccetto ed entrambe richiedono di lasciar fuori qualcosa. Decidere, derivante dal latino caedere, ha la stessa radice semantica di tagliare e infatti implica proprio un taglio netto tra quello che rientra nella nostra intenzione e quello che non vi rientra. Come vedremo tra poco, l’opposto dell’intenzionalità - quella che definiremo come sciatteria - è proprio quello che mina alla radice i rapporti e le cose belle della nostra vita. Supponiamo che tutto il possibile sia contenuto in un turbine caotico di probabilità che ci accompagna durante tutta la nostra vita; qualunque cosa ci possa succedere è, in un qualche modo, presente come opportunità statistica all’interno di un piccolo sacchetto che ci portiamo sempre appresso – un pò come il sacchetto di sabbia di Morfeo utilizzato per plasmare i sogni. Le cose succedono sulla base di un affastellarsi di con-cause, talune implicite e talune esplicite, in un modo che in mancanza di intenzione possiamo definire accidentale: succedono perchè era il momento che succedessero. L’intenzionalità è quel processo di estrazione di una singola evenienza dal reame del possibile. Quando agiamo in maniera intenzionale quello che succede è il più possibile (potrebbe non esserlo mai totalmente) allineato alla nostra volontà. In tal senso l’intenzione anticipa l’attenzione. Dapprima si manifesta la volontà di far accadere qualcosa mediante intenzione e successivamente si pone l’attenzione su quel qualcosa per evolverlo e curarlo.
Infine abbiamo l’eleganza, quell’attitudine ad esprimere compassione e gentilezza attraverso la propria manifestazione (pensieri, parole e azioni) verso gli altri. L’eleganza è il mordente principale per una vita serena e permette di essere sempre ben predisposti verso gli altri. L’eleganza è quella che permette di applicare il principio di benevolenza (dare sempre per scontata la miglior intenzione possibile da parte dell’altro… poi c’è sempre tempo per ricredersi), di perdonare, di ascoltare senza giudizio, di dare e accettare critiche in modo costruttivo, di essere completamente aperti e autentici, di rispettare. Insomma, l’eleganza è quell’elemento che permette di manifestarsi in modo armonioso e sinergico.
A queste 6 forze mi sento di aggiungerne una settima: la curiosità. In particolare la componente empatica della curiosità è quel motore che ci muove verso la conoscenza di altri. Come spiega Anne-Laure Le Cunff in Curiosity Attractors: The Diffuse Obsessions That Shape Our Lives: “la curiosità empatica ha a che fare con il nostro interesse nel connetterci con gli altri, cercando di capire le loro prospettive e le loro esperienze.” E ancora: “Possediamo una spinta innata a sentirci parte di qualcosa di più grande di noi stessi e la curiosità empatica emerge proprio dal nostro profondo bisogno di formare connessioni interpersonali e legami con gli altri.” Quando guardiamo le cose dal punto di vista della curiosità ci apriamo all’acquisizione di nuovi stimoli, apprendiamo cose interessanti tramite l’azione di interessarci non per un qualche scopo specifico ma per il semplice fatto di dedicarci all’esporci a qualcosa di nuovo. Senza la curiosità non vi sarebbe spinta per la comprensione e senza quest’ultima non porremmo mai la giuste domande a noi stessi e agli altri e, senza queste, vien da sé, non avremmo alcun motore che ci proietti verso una nuova, migliore, versione di noi stessi. In questo caso con “migliore” non intendo un migliore in senso morale, ma semplicemente in senso ontologico. Dal momento in cui l’eziologia del cambiamento deriva da una spinta consapevole la versione che ne deriva non può che essere arricchita rispetto la precedente e quindi, migliore.
Dati per assodati questi elementi fondamentali un rapporto va poi mantenuto vivo e attivo e per questo nulla si può fare di meglio se non applicare la cosiddetta prospettiva del curatore. Prendiamo ad esempio il curatore di una libreria il cui compito è quello di tenerla sempre in ordine e di curarla e nutrirla. Questo curatore, chiamiamolo Lucien, ogni volta che passa per un corridoio vicino ad uno scaffale si premura di lasciare lo scaffale più in ordine di come l’ha trovato. Ogni suo piccolo gesto è direzionato verso un piccolo miglioramento della globalità della biblioteca che ha in carico. Questa è la prospettiva del curatore, ogni qualvolta si interagisce con una persona il rapporto deve guadagnare qualcosa, deve risultare più forte, più profondo o, perchè no, diverso e per questo, migliore.
Veniamo ora alla principale causa di morte dei rapporti sociali in modo da avere un riferimento per sapere come evitarla. Quello che segue è semplicemente un piccolo riassunto di un intervento estremamente chiaro e significativo di Immanuel Casto che si può trovare a questo link. L’esatto opposto della prospettiva del curatore è la **sciatteria** quell’attitudine di dare le cose per scontate, darsi per scontati, lasciare del non detto, non impegnarsi per dare qualcosa al rapporto per fare in modo che questo sia maggiore della somma delle parti, accontentarsi di sé stessi, degli altri e di quello che si ha come se fosse tutto quello che si può avere perchè “tanto non potrà cambiare”. Se si vuole avere dei rapporti significativi bisogna necessariamente evitare la sciatteria, altrimenti questi periranno sotto la pressione negativa dell’indifferenza. Fortunatamente sopra abbiamo elencato le modalità per evitarla già a prescindere. Dal momento in cui si fanno le cose con attenzione, intenzione ed eleganze e ci si impegna ad ogni singola interazione a far sì che il rapporto ne esca arricchito allora non bisogna avere timore.
In ottica di miglioramento incrementale se si vuole fare un controllo di come si sta applicando la prospettiva del curatore una buona domanda da porsi dopo aver interagito con una persona significativa è la seguente: “Come ho contribuito, in maniera non scontata, al nostro rapporto?”. La cosa assurdamente bella di tutto questo è che un rapporto si arricchisce grazie a gesti piccolissimi: un sorriso, l’offerta di una spalla in un momento di tristezza, di comprensione in momento di bisogno o di una strigliata quando ve n’è la necessità, una critica ben argomentata, l’empatia per comprendere lo stato d’animo altrui e non forzare la mano quando non è il caso o la simpatia per entrare in vero contatto e lasciarsi trasportare dall’energia del momento - di qualunque tipo essa sia. Se si riesce a trovare una risposta alla domanda allora si può star certi di aver arricchito il rapporto e che questo avrà acquisito maggiore energia che, a sua volta, sarà riversata verso di noi; è sempre un dare disinteressato per avere molto più di quando ci si sarebbe potuti aspettare.
Ok, tutto figo… ma proviamo a chiudere il cerchio. Partendo dalla rivisitazione del teorema di Gödel applicato all’auto-consapevolezza, abbiamo individuato relazioni sociali significative (di vari tipi) come il veicolo per conoscere di più sé stessi grazie all’acquisizione di outside view. Abbiamo poi visto come instaurare a curare relazioni sociali che possano essere utili in tal senso e, anche, come evitare che le relazioni a cui teniamo ci scivolino tra le mani senza neanche accorgercene. Ma qual’è il vero motivo per cui, in principio, abbiamo bisogno di conoscerci e fare tutta questa fatica? Il motivo è che in ognuno di noi alberga tutto ciò che possiamo essere; l’intero spettro dell’umano, e del disumano, è presente in noi che ci piaccia o meno. Pensiamo alla cosa peggiore alla quale possiamo pensare: ecco, un embrione di quella cosa è anche in noi. Riconoscerlo è il primo passo verso una esplorazione di sé autentica. Ognuno di noi manifesta delle caratteristiche proprie emergenti da questa amalgama increata di tutto quello che può esserci. Lo specchiarsi negli altri ci aiuta a capire quali sono le cose non esplicite che possono fare parte di noi e, capendole, acquisiamo un potere su di loro: il potere di decidere cosa vogliamo e non vogliamo manifestare. Solamente l’esplorazione e l’incontro con ciò che non vogliamo essere può metterci al riparo dal diventarlo. Questo è il motivo per cui abbiamo il dovere di conoscerci ed il motivo per cui da soli, isolati, non abbiamo tutti i mezzi per provare tutte le proposizioni su noi stessi.
Per giungere quindi ad una conclusione pongo un invito: esploriamoci! Non gettiamo l’occasione di connetterci e scoprirci perché è la singola cosa più bella che possiamo fare come umanità, la manifestazione ultima dell’amore. Non può quindi esserci conclusione migliore a questo scritto se non una parafrasi delle parole pronunciate da Clayton Christensen: ho concluso che la metrica tramite la quale Dio valuterà la mia vita non saranno i dollari ma il numero di individui sulle quali vite avrò impattato in maniera positiva.
Risorse Citate
Jim Al-Khalili, Johnjoe McFadden, La Fisica Della Vita, Bollati Boringhieri, 2015
Julie Beck, The Six Forces That Fuel Friendship, The Atlantic, Jun 10, 2022, link
Anne-Laure Le Cunff, Curiosity Attractors: The Diffuse Obsessions that Shape our Lives, Ness Lab, Feb 7, 2023, link
Immanuel Casto, La Principale Causa di Morte dei Rapporti Umani, TEDxPisogne, Jun 5, 2023, link